Nella città costiera di Gabès, nel sud della Tunisia, migliaia di persone sono scese in strada più giorni, a partire dal 10 ottobre, per protestare contro la grave contaminazione generata da un’azienda statale produttrice di fertilizzanti e derivati del fosfato.
Lo sciopero generale convocato dal sindacato UGTT ha paralizzato completamente la città: negozi, scuole e caffè hanno chiuso le porte, mentre i manifestanti chiedevano misure urgenti.
Le proteste sono esplose dopo un episodio di fumo e gas tossici che ha provocato decine di ricoveri ospedalieri. Gli abitanti accusano l’impianto di emettere ammoniaca e ossidi di azoto, oltre a scaricare in mare e nell’aria rifiuti radioattivi di fosfogesso, un sottoprodotto del trattamento del fosforo.
Un rapporto di revisione esterna pubblicato nel luglio 2025 ha confermato che la fabbrica violava in modo grave gli standard nazionali e internazionali. “Lo stabilimento ha avvelenato tutto: gli alberi, il mare, la popolazione”, ha denunciato un’attivista locale. “Persino i nostri melograni sanno di fumo”, ha aggiunto.
Il malcontento si è riflesso nello slogan gridato dai manifestanti: “Gabès vuole vivere”, che reclamava la chiusura immediata o lo smantellamento dello stabilimento.
Da parte sua, il presidente Kais Saïed ha riconosciuto la gravità della crisi, definendo la situazione un vero e proprio “omicidio ambientale”. Con questa dichiarazione ha ammesso il grave impatto che l’inquinamento ha sulla popolazione di Gabès. Tuttavia, nello stesso intervento ha sottolineato che il fosfato rimane un pilastro economico essenziale per la Tunisia, evidenziando la contraddizione tra la difesa della salute pubblica e il mantenimento della produzione di una risorsa strategica per il Paese. In questo senso, il capo dello Stato non si è schierato con le proteste, ma cerca di bilanciare il malcontento sociale con la necessità economica.
Oltre Gabès: l’insostenibilità dell’agricoltura chimica
Il caso di Gabès mette in evidenza un problema più ampio: il modello di agricoltura chimica e la dipendenza da fertilizzanti, pesticidi e trattamenti intensivi non sono più sostenibili, nemmeno nei paesi del sud del Mediterraneo. Queste regioni, spesso, subiscono in modo diretto le conseguenze di un modello produttivistico che distrugge gli ecosistemi, degrada l’ambiente e compromette la salute delle persone.
I manifestanti sottolineano che l’inquinamento ha rovinato la pesca, distrutto i fondali marini, costretto molti pescatori a cambiare mestiere e fatto aumentare le malattie respiratorie e i tumori tra giovani e anziani.
Il grido che risuona per le strade di Gabès — “lasciateci respirare” — riassume bene questa richiesta. In un mondo in cui i costi ambientali e sanitari dell’agricoltura chimica sono sempre più elevati, ripensare il modo in cui produciamo cibo non è più opzionale: è un’urgenza condivisa.
Juan Sandes Pueyo

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